Austera, semplice, ma affascinante, risale al XIII secolo, quando aveva per la famiglia Lambertini funzione di avvistamento dei nemici.
La sua proprietà fu acquisita diversi secoli dopo da un’altra casata a cui la storia di Poggio Renatico è indissolubilmente legata: quella dei Fornasini. Portano ancora il nome di Carlo Fornasini una via del paese e una Fondazione, la Fondazione Dott. Carlo Fornasini appunto.
Le mura della torre videro la fanciullezza della beata Imelde Lambertini, figlia di Egano e Castora Galluzzi, nata nel maggio o nel luglio del 1321. Nel 1320 la famiglia Lambertini soggiornò a lungo a Poggio Renatico e probabilmente vi ritornò nel 1326, quando fu affidata a Egano la custodia della Torre dell’Uccellino.
Cresciuta nella fede e nella preghiera, Imelde entrò in convento giovanissima. Il 12 maggio 1333, vigilia dell’Assunzione, in convento erano state celebrate le funzioni e le suore si erano allontanate: lei sola era assorta in preghiera per chiedere la Santa Comunione, quando una luce abbagliante la stordì; riavutasi dallo smarrimento vide sopra di lei sfavillante un’ostia santa. Imelde, in ginocchio, con le mani congiunte, si comunicò e poco dopo la sua anima, ardente di amore e di fede, volava in cielo.
Dopo la peste del 1347 e del 1457, i resti mortali della suora subirono traslazioni in vari conventi. Nel 1783 il marchese Piriteo Malvezzi donò al convento delle suore di Santa Maria Maddalena un’urna per conservare le reliquie della religiosa, vissuta e morta in odore di santità.
Dopo la venuta di Napoleone in Italia e gli sconvolgimenti civili e politici che ne seguirono, la sacra urna fu data alla famiglia, fino al 1799, quando fu trasportata nella chiesa di San Sigismondo in Bologna. La piccola suora fu beatificata nel 1826.
Tornando alla torre, nel 1963, durante alcuni lavori di restauro resisi necessari per i danni recati alla struttura da un fulmine, che causò il crollo dell’angolo ovest della sommità, l’allora proprietario Carlo Francesco Fornasini rinvenne degli affreschi entro le nicchie esterne della struttura e li donò alla Pinacoteca Nazionale di Ferrara.
Il loro recupero e distacco fu diretto dalla Soprintendente Amalia Mezzetti, che li presentò alla IX settimana dei Musei italiani (1965-66). Nel palazzo rossettiano di Ferrara si possono ammirare sei immagini di 173 per 95 centimetri, oggetto nel 1964 di opere di restauro e consolidamento per il cattivo stato di conservazione: la musa Urania e la Speranza – individuabili grazie a scritte apposte sulla sommità -; un gruppo di tre soggetti; due persone con una scimmia accanto a un camino acceso; quattro individui con un gufo; una scena che resta invece indecifrabile: del tutto misterioso è il significato dei frammenti con gruppi di più figure, connotati apparentemente da oscuri rimandi letterari e negromantici.
Rimane difficile determinare l’entità del ciclo, che dovette essere più cospicuo: la figura di Urania postula infatti la presenza delle altre Muse, così come è possibile che alla Speranza si affiancassero le altre Virtù. L’assenza di rilevazioni al momento del distacco degli affreschi impedisce inoltre di determinarne l’originario posizionamento e la primitiva funzione.
Dette raffigurazioni conservate a Palazzo dei Diamanti attesterebbero l’attività poggese di uno fra gli interpreti più alti e originali del Rinascimento maturo: Amico Aspertini (Bologna 1474/1475-1552), interprete di rilievo della scuola bolognese e autore della “Pietà” conservata nella basilica di San Petronio a Bologna.
Il ciclo sarebbe da attribuire non alla fase tarda del pittore, ma a quella più inquietamente sperimentale del secondo decennio, che si apre alla frequentazione, oltre che dei nordici, della pittura giorgionesca: dopo i lavori in San Frediano a Lucca (1508-09) e comunque prima della sterzata in senso aspramente polemico costituito dalla Pietà (1519).
L’attribuzione degli affreschi ad Amico Aspertini, lungamente discussa da eminenti studiosi, confermerebbe il rilievo assunto dai signori Lambertini nel ‘500: Cornelio Lambertini, eletto senatore da Giulio II nel 1506 e nominato conte del Poggio dallo stesso pontefice nel 1510, aveva chiamato al suo servizio una delle più importanti personalità della cultura padana dell’epoca.